Il pallone d’oro dalla coscienza di stagno

Il pallone d’oro dalla coscienza di stagno

Chi ha visto la finale di Champions League con scarto più ampio della storia ha visto anche la faccia di Osmane Dembélé, il nuovo pallone d’oro, concentrato a pressare il portiere avversario con una ferocia che non lasciava spazio a dubbi. La finale è finita 5 a 0 per il suo Paris Saint-Germaine F.C. contro l’Internazionale di Milano F.C., ed è stata la gara che ha convinto molti – se non tutti – che il pallone d’oro di lì a qualche mese sarebbe stato assegnato proprio a lui, il francese classe 1997. 

Il Ballon d’Or sugella un’annata in cui Dembélé ha dimostrato di essere fondamentale per la vittoria dei trofei della sua squadra, una stagione sportiva straordinaria che ha visto i parigini vincere il campionato e la coppa nazionale, oltre che la già citata Champions League. Il talento del francese sembrava offuscato negli anni passati al Barcellona, dove ora gioca il suo antagonista, il diciottenne spagnolo Lamine Yamal.

Ousmane, classe 1997, nasce a Vernon, in Normadia, da padre di origine senegalese e madre mauritiana, si forma nelle giovanili del Rennes, esplode nel Borussia Dortmund, dove gioca una sola stagione prima di passare al Barcellona. Lì, come detto, il suo talento sempra annacquarsi, nel mare magnum del talento blaugrana, tra i vari Suarez, Iniesta, Busquets, Ibrahimovic, e ovviamente, sua maestà Lionel Messi. Passa al PSG, ma anche qui la sua stella è offuscata da quella più luminosa di Mbappé, francese come lui, che però passerà al Real Madrid, lasciandolo finalmente libero di brillare in questa stagione appena conclusa che lo ha portato a diventare simbolo della Francia multiculturale. In campo, pochi sanno spostare gli equilibri come lui: accelerazioni devastanti, colpi imprevedibili: queste sono le firme del campione Ousmane, e ci sono sempre state, ma Luis Enrique, il suo allenatore, spostando il suo raggio d’azione più centralmente vicino alla porta gli ha regalato quella visibilità che solo i gol (tanti e pesanti) portano. È questo che ha fatto scattare quell’interruttore della luce che lo ha messo al centro del palcoscenico del Pallone d’Oro.

Eppure, accanto al campione, resta l’uomo. Dembélé si è spesso presentato come voce politica, schierandosi contro la destra francese e difendendo pubblicamente valori progressisti di inclusione e giustizia sociale. Il neo pallone d’oro aveva invitato nel 2024 tutti i francesi ad andare a votare per fermare l’ascesa politica di Bardella, candidato del partito di Marine Le Pen. Il campione aveva parlato di “campanelli d’allarme” e di “mobilitazione” necessaria. Una narrazione che avrebbe potuto (e forse, nel suo pensiero, voluto) accreditarlo anche come guida morale per i giovani tifosi francesi e non solo. 

Ma le parole si scontrano sempre coi fatti, e il comportamento indica la natura degli uomini, molto più che le loro parole. L’episodio delle frasi razziste rivolte a dei giapponesi nel 2021 durante un ritiro col Barcellona, non può essere archiviato come una leggerezza. Non era uno sfogo privato, ma un insulto pubblico, documentato, che ha fatto il giro del mondo. Un inciampo che mette a nudo una contraddizione profonda: predicare inclusione e, al tempo stesso, praticare esclusione.

È questa la frattura che accompagna oggi la sua incoronazione. Il Pallone d’Oro non cancella quel passato, semmai lo rende più evidente, perché espone le incoerenze di un campione che non riesce a essere all’altezza delle parole che pronuncia. Si applaude il calciatore, ma si discute l’uomo.

In un calcio sempre più attento all’immagine e al messaggio, il caso Dembélé diventa simbolico: può un campione ergersi a voce morale se non sa prima fare i conti con i propri errori? Oggi, più che un trionfo limpido, la sua vittoria sembra un paradosso: piedi d’oro, coscienza fragile. E un interrogativo che resterà sospeso, ben oltre il clamore del premio.

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